I veri rischi derivanti dagli errori gestionali post-scudetto. Ora è il momento di stringerci a coorte
La simbiosi che c'è tra la città e il calcio a Napoli non è rintracciabile altrove. Bisogna analizzare in modo lucido e oggettivo quanto sta avvenendo.

Attenzione ai catastrofismi delle ultime ore, perché, oltre a non essere centrati, fanno solo il male del Napoli! Sono solo attacchi personali che non evidenziano i rischi effettivi derivanti, è indubbio, da una serie di errori gestionali. Il principale rischio? È legato al fatto che è cambiato il modo di consumare lo spettacolo-calcio. In un’arena competitiva in cui tutti i concorrenti possono riprodurre tutto (tecniche, tattiche, strumenti), gli unici elementi distintivi e non imitabili diventano i clienti-tifosi, quelli che trascinano poi gli altri segmenti di clientela: media, sponsor, altre società calcistiche e così via. In termini di competizione aziendale, l’aspetto più determinante riguarda quindi l’attenzione al cliente-tifoso, che non è solo importante, è l’unica cosa che conta.
E a tale proposito occorre porsi una domanda fondamentale: il cliente è disposto a pagare se l’azienda calcio non genera valore?
In tal senso, il Napoli (ma in generale, tutta l’industria del calcio) deve decidere in fretta come riorganizzarsi per essere competitivo, perché esistono altri prodotti in grado di offrire un’alternativa migliore ai clienti-tifosi.
A tal proposito, però, bisogna evitare l’errore di considerare i clienti-tifosi in maniera indifferenziata.
Oggi, infatti, è possibile segmentare i clienti-tifosi di un’azienda di calcio (e del Napoli) in due macro-categorie: i tifosi-supporter e i tifosi-spettatori.
I tifosi-supporter, quelli che vanno allo stadio, sono di solito local e, ovviamente, soddisfatti quando vincono. Ma per vincere, l’abbiamo visto, bisogna avere più soldi degli altri oppure, se non si appartiene alla schiera dei ricconi, saperli gestire bene in modo da assicurarsi l’unica fonte di vantaggio competitivo, cioè i calciatori, e, in tal caso, la differenza nella quantità di soldi disponibili deriva, oltre che dalle tasche dei proprietari, soprattutto dalla gestione del merchandising e delle sponsorizzazioni, degli abbonamenti e dei ricavi televisivi.
In Italia, negli ultimi vent’anni, solo sei squadre hanno vinto lo scudetto, quindi solo una parte dei tifosi-supporter è stata soddisfatta. Una minoranza che peraltro, secondo il paradosso di Louis-Schmeling (dai nomi di due grandi pugili degli anni Trenta) descritto nel 1964 dal professor Neale, ha perso interesse per il prodotto a causa della concentrazione dell’elevato numero di vittorie. In altri termini, secondo Neale i ricavi di una società sportiva aumentano proporzionalmente alla percentuale di vittorie della stessa fino al raggiungimento di un determinato punto, oltre il quale si ha un rapido crollo.
Provate a guardare la statistica di Transfermarkt sugli spettatori della Juventus nella stagione 2018-19 (32.231), l’ultima prima del Covid, e vi renderete conto che la media di presenza sugli spalti dei tifosi-supporter rispetto al campionato 2001-02 (40.550) si è ridotta del 20%. E in questi venti anni la Juventus ha vinto ben dieci scudetti.
Il paradosso di Louis-Schmeling diventa ancora più calzante se si pensa al secondo segmento di tifosi, quello dei tifosi-spettatori. Si tratti di clienti global, tanti e in crescita, disposti a pagare molto in abbonamenti tv e merchandising e quindi di valenza determinante per la suddivisione dei diritti televisivi. Un segmento di clientela meno emotivo, che vuole assistere allo spettacolo offerto dai singoli calciatori e a una competizione avvincente ed equilibrata sino all’ultimo: una merce sempre più rara in epoca di consumo della televisione in un’unica soluzione, senza “spoiler”.
Oggi il tifoso-spettatore si deve accontentare di fasi finali di competizioni a gironi (l’equivalente di un film), come è avvenuto negli ultimi anni anche a Napoli, che, per essersi gustata delle emozionanti partite di Champions League, sembrava essersi trasformata in Liverpool o Madrid. Ma quello stesso tifoso-spettatore sarebbe felice di poter vedere uno spettacolo lungo una stagione, come una serie tv.
Caro presidente è tutto chiaro ora? E non dimenticare che il cliente-tifoso dell’azienda di calcio è disponibile a pagare (pay-tv, merchandising, abbonamenti allo stadio) solo se lo spettacolo genera valore.
Quanto è disponibile a pagare? E chi lo accontenterà?
Per rispondere a questa domanda bisogna partire dalla simbiosi che c’è tra la città e il calcio a Napoli che non è rintracciabile altrove. Basti pensare all’epoca di Maradona, all’unione dei napoletani di qualsiasi pensiero politico, estrazione sociale e collocazione geografica, in una Napoli, ricordiamolo, divisiva, disastrata e con un’immagine pubblica completamente diversa da quella degli ultimi dieci anni. Le due cose, il calcio e la cultura civica, in questa città e forse solo in questa città, da circa un decennio corrono, invece, spesso parallele.
Napoli in questi anni si è rilanciata, innanzitutto come città, e la squadra è diventata un acceleratore di questo processo, di questo percorso. Il combinato disposto di un luogo messo di nuovo sulla cartina geografica e di una squadra che ritorna protagonista è il plusvalore. Se la città è piegata, come era ai tempi di Maradona, allora il calcio diventava l’unica arma di riscatto di un popolo. Maradona riscattava tutto quello che gli altri avevano mortificato: la politica, la classe dirigente, la gestione del post-terremoto, la camorra, le speculazioni edilizie. Oggi non c’è più riscatto attraverso il calcio, semmai una reciproca conferma, si procede insieme e si cresce a vicenda.
Ma Aurelio De Laurentiis è pienamente consapevole del fatto che, se la società non recupera l’appeal internazionale del successo, i turisti continueranno a venire a Napoli ma non compreranno più le maglie di Kwara e di Osimhen, ma quella di Maradona i cui diritti non sono del Napoli.
Come napoletani, ora è il momento di stringerci a coorte.
Buon Natale a tutti.
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